Sarebbe cosa assai improbabile tentare una catalogazione di “cucina romanesca” in una città che ha qualche migliaio di anni di storia.
Anche il più incallito assertore delle tradizioni che si perdono nella notte dei tempi dovrebbe riconoscere che no, non è possibile immaginare che a Roma si cucina allo stesso modo da sempre.
Infatti gli antichi romani dell’Impero non erano intenti a mangiare, sdraiati sui triclinii, piattoni di bucatini alla carbonara o di trippa alla romana: non ne conoscevano nemmeno l’esistenza.
La cucina romanesca come oggi è intesa ( ed è destinata a scomparire anche questa) è il risultato di culture pastorizie e contadine che si incrociavano nella grande città che fu di Augusto e Costantino e poi dei Papi di Santa Romana Chiesa.
Per essere più esatti agli inizi del 1800 , due secoli fa.
E già da allora si può parlare di due cucine romanesche: una di Testaccio ed è quella principale e ancora che fa la parte del leone e l’altra, più semplice e legata al mondo pastorale, quella di Trastevere.
La prima è quella fortemente condizionata dalla presenza del mattatoio ed al famoso “quinto quarto” dei bovini macellati , ovvero le cosiddette frattaglie: guancia, lingua, coda, fegato, pajata, animelle, rognone( alimenti che oggi fanno orrore)con profonde influenze di cultura ebraica, e la seconda legata al mondo della transumanza dei pastori che scendevano dall’Abruzzo e che trovavano ricovero per lo più dall’altra parte del Tevere, appunto Trastevere ( che non era considerato Roma). Ecco la cucina degli abbacchi, degli arrosticini, dell’Amatriciana.
E della “Minestra di Arzilla e Broccoli”( razza e cavolo romanesco).
Ne abbiamo già parlato ma è la ragione che mi porta a fare un confronto che poche sere fa si è tradotto in una ricetta che poi vi racconterò.
Come mai in un quartiere di Roma tipicamente legato alla montagna è nata una tradizione gastronomica che ha come ingrediente fondamentale un pesce di mare e, aggiungo io, accipicchia che pesce?
Molti disegni di Bartolomeo Pinelli, memorabile incisore di Roma (Trasteverino) a cavallo dei secoli 18 e 19 , rappresentano carretti di pesce in vendita dove le razze sono immancabili e questa può essere la ragione. La motivazione sta nel fatto che era obbligo di ogni cristiano osservare almeno un giorno di “magro”( senza uso di carne e prodotti dell’allevamento) nella dieta settimanale. E i Trasteverini inventarono questa pietanza.
Ma il paradosso sta nel piccolo paese( oggi città) di Nettuno dove a dispetto del fatto che i suoi abitanti vivano tutti a ridosso del mare, la loro tradizione gastronomica non contempla piatti di pesce. Sono ( erano) tutti contadini e per loro il mare era una linea di confine, l’esatto contrario dei loro cugini di Anzio che invece sono (erano) tutti marinai.
Niente piatti di pesce a Nettuno meno uno, a mio modo di vedere eccellente : la “Minestra di Scaviglioni” che poi sono dei piccoli coccetti o capponi o gallinelle che dir si voglia.
A giorni la mia ricetta.
Gastronomy Domine
Agostino Mastrogiacomo.